Gli struffoli con i tuoi, la pastiera con chi vuoi

Soffiato di pastiera (buono!)

Non è più come una volta, quando la pastiera era sacra. Quando la faida pasquale tra parenti e vicini partiva al grido di: La pastiera si fa senza la crema! I canditi non ci vanno! Il grano va intero! No, il grano va passato! Ma quando mai, il grano si passa solo metà! eccetera eccetera.

Oggi non usa più, è storia antica. Oggi, a Napoli, non si sente più nessuno dire: Chesta nun è pastiera, chesta è ‘na torta c’ ‘a ricotta! I tempi sono cambiati, oggi le nostre donne sono superiori, non si abbassano a menar vanto di arti culinarie, no, si affidano ai migliori pasticcieri, quelli che vengono meglio su Tik Tok.

Ma a me non mi convincono. Per me, a meglia pastiera è quella di casa. Non necessariamente di casa mia. Cioè, quella di casa mia è oggettivamente più buona, ma non ne faccio una bandiera. Voglio dire, se qualcuno fa una pastiera migliore non scateno mica una guerra. Ma quella di casa mia è più buona, va bene, non ho problemi ad ammetterlo.

Ora vuoi liberarmi, cara? Prima ho detto che la pastiera di Virginia era buona, non che fosse migliore della tua!

(Nella foto, il soffiato di pastiera di mia moglie, mai mangiato nulla di più buono. A parte la pastiera classica. La sua, naturalmente).

Taccuino di un vecchio boomer

Caro centennial (o, se preferisci, caro Gen Z), non so perché ma quando si avvicina la fine di un anno noi boomers pensiamo sia doveroso tracciare una linea. E, ciucchi di prosecco scadente e sazi di panettone a buon mercato, cerchiamo di fare un bilancio: di quello che si è fatto, di quel che si farà, di quello che avremmo voluto o dovuto fare. È un’arte sottile, quella dei bilanci, c’è da guardarsi indietro, c’è da immaginare il futuro, c’è soprattutto da separare il grano dal loglio. Io, però, non lo faccio mai.

Forse a causa della cervicale, che non agevola il girocollo a gufo per rimirare il passato, e poi non ho mai capito che cosa sia il loglio. Il futuro, poi, ma chi lo hai mai capito. Voglio dire, da piccolo volevo fare l’agricoltore (non il contadino, bada bene, fottuto snob che ero) oppure l’astronauta, e invece.

Invece m’è venuto in mente di darti qualche dritta, una specie di istruzioni per l’uso, immagina un Marty McFly che ritorna dal futuro per evitarti lo choc di ritrovarti boomer all’improvviso. E più che dritte sono cartelli stradali sulla via del tempo, giusto per sapere cosa ti attende dietro l’angolo ed evitare di spiaccicarti com’è capitato a me. Perché non è bello sentirsi apostrofare Ok, boomer!, quando l’apparecchio acustico è giù di batteria e dell’inglese a malapena biascichi il classico the pen is on the tébol ma non hai mai avuto l’occasione di sfoggiarlo.

Allora, caro centennial (o, se preferisci, caro Gen Z), sappi che è possibile intravedere l’iceberg che ti farà affondare come il Titanic, basta solo prestare attenzione a questi cinque indizi:

  1. L’occhio di Sauron. Questo è facile, anche perché la trasformazione dei tuoi occhi sarà lenta e progressiva, ancorché inesorabile. La sclera, un tempo bianca e virginale, diverrà un crocevia di venuzze da gareggiare con la metropolitana di Londra in ramificazioni primarie e secondarie. La pupilla, poi, un tempo cerchio perfetto dipinto da messer Giotto in persona, si appiattirà e allungherà a furia di strizzare gli occhi per mettere a fuoco. Questi segnali te li racconteranno lo specchio o gli amici, sperando che questi ultimi abbiano almeno un po’ di tatto. Tu, invece, noterai un progressivo allontanamento delle mani che stringono un libro o un volantino, fino a usare un bastone da selfie per mettere a fuoco sul cellulare il video di Johanna la pornofarfalla in versione 4K durante il Black Friday di OnlyFans.
  2. RoboCop di provincia. Chiudi gli occhi. Immagina di passeggiare, dinoccolato e bello, su e giù per il corso del paese a fare le vasche. Immagina poi che piova ruggine all’improvviso e non c’è alcun riparo nei dintorni, solo una pensilina in lontananza. Allora ti affretti e provi ad alzare i tacchi, mentre il cellulare ti spara Purple rain di Prince. Ma la pioggia è micidiale: ti blocca, ti ingolfa, ogni passo una fatica immensa. Non solo, le giunture si lamentano e scricchiolano, e più corri più rallenti, in una specie di infinito e cigolante moonwalk. Ecco, tra qualche anno andrà così, e nemmeno andare a letto con cinque gocce di Svitol N°5 risolverà il problema.
  3. Grazie, Signore, grazie. Tu che prendi la vita di petto, tu che affronti il mondo a testa alta, tu che imbocchi la via diretta senza passare dal via. Tu che ami l’uguaglianza, pratichi la democrazia dal basso e odi i privilegi immeritati. Tu che non sai ancora che c’è un attimo nella vita di ognuno, un maledetto attimo in cui un tuo pari si alzerà nel treno e ti cederà il posto dandoti del lei. Oppure sarà una ragazza che ti chiederà l’ora approcciando con un Mi scusi. A quel punto, da quel momento, la vita sarà tutta una discesa. Agli inferi. All’improvviso ti accorgerai che tu non sei più tu, ma sei diventato un lei. Da principio combatterai, risponderai che no, dammi del tu, ma ogni sforzo sarà vano, e piano piano ti accoccolerai sul morbido divano della differenza d’età. Poi arriverà quell’altro momento, quando la commessa del negozio di telefonia, dove andrai perché non saprai più come usare il nuovissimo iphone 747, ti risponderà con uno sgrammaticatissimo, urticantissimo, dolorosissimo tu. E vagherai per sempre nel limbo di coloro che Ho visto tu che dammi il lei, che mi dà il tu ma pensa lei.
  4. Homo umarell. Da quando camminiamo su due zampe, 4 o 5 milioni di anni fa, abbiamo deciso che a testa alta sentiamo meno le puzze dei nostri simili e a trottare a quattro zampe non ci pensiamo più. E abbiamo poi deciso che facciamo la pipì in piedi ma, senza la capacità di cacciare che avevamo conquistato 1,5 milioni di anni fa, non centriamo la tazza neanche per sbaglio e quindi ci prostriamo a quattro zampe per pulire immediatamente e non farci scoprire dalla foemina sapiens ridens. Eppure, nella tua piccola e ridicola linea temporale accadrà che a un certo momento le braccia non tracceranno più un pendolo a fasi alterne per facilitare e accompagnare un’andatura veloce, ma verranno attratte da una forza inesorabile che le spingerà sempre più all’indietro fino a serrare le mani in un groviglio inestricabile per poi guidarti fino al primo cantiere dove consiglierai all’onesto muratore come usare il martello pneumatico. Sarà difficile poi scappare con le mani dietro la schiena, ma imparerai presto e sarà più divertente di guardare Johanna la pornofarfalla senza ricordarti perché.
  5. Fuga per la vittoria. Tu non lo sai – o meglio, non lo sai ancora – ma la domotica, quella tecnologia che accende la caldaia quando stai per tornare a casa, non è un’invenzione recente, ma l’ha inventata Madre natura tantissimi anni fa. Per farti comprendere, ti faccio un esempio. Anzi, una predizione. Con il passare del tempo, la routine del ritorno a casa acquisterà quel pepe in più che vivacizzerà la giornata. Non appena infilerai la chiave nel portone, infatti, e comincerai a salire le scale o prendere l’ascensore, un piccolo trasmettitore appositamente predisposto nel bagno di casa invierà un messaggio binario al tuo apparato urinario che da off si posizionerà su on. E vedrai quanto sarà divertente correre verso il bagno con le braccia dietro la schiena mentre presbite cerchi di infilare la chiave tremolante nella serratura di casa per poi trascinarti a brache calate scricchiolando e smadonnando e infine liberarti mentre il gatto esce terrorizzato dalla lettiera  e ti graffia all’impazzata disegnando sull’addome completo la mappa dei cantieri delle nuove linee della metro di Napoli dove trovare muratori fantastici e veloci per inseguirti con i martelli pneumatici verso casa dove ti aspetta il sensore per switchare in un eterno fatidico e circolare on.

Tutto qui, caro centennial (o, se preferisci, caro Gen Z), e queste dritte mi va di regalartele, oggi mi sento buono. Così, la prossima volta, prima di apostrofarmi con Ok, boomer! magari ci pensi due volte. Oppure no, chi lo sa, ma quel velo di terrore che vedo nei tuoi occhi mi ripaga di tutte le ingiurie tue e del tempo che va e non torna più. Ma ora ti devo lasciare, c’è un nuovo cantiere sul corso e non è bello far attendere degli onesti lavoratori.

Suonala ancora, Sam!

(A ottant’anni dalla sua uscita, un pezzo che risale agli albori della mia presenza sul web. Enjoy it!)

Casablanca movie poster

Fumo. Acre, pungente, impregna i legni, i vetri, gli ottoni: è parte integrante dell’arredamento del locale. Le pale del ventilatore faticano a muoversi nell’aria pesante e afosa mentre i tasti del pianoforte suonano stancamente, accompagnati dalla voce roca del pianista. Nero, naturalmente.

You must remember this…

Siamo in un bar, in una città dal nome languido e misterioso: Casablanca. L’ora è tarda, le sedie sono ammucchiate sui tavolini e il barman sta ripulendo gli ultimi bicchieri, ma c’è ancora traccia d’umanità. A un tavolo, solo con il suo passato, è assorto Humphrey (l’inimitabile) dal volto segnato dai mille destini incrociati in attimi di celluloide.

… a kiss is just a kiss…

Dalle scale, fasciata in un abito di seta bianca, scende Ingrid (la fatale), sinuosa, e si avvicina lentamente.

– Posso, bello?
– Certo, pupa, il mio cuore è sempre aperto. Cosa prendi?
– Il solito.
– Due, Harry. Hai una brutta cera: dormito poco?
– Non me ne parlare, le zanzare mi hanno tormentata. Tu, piuttosto, come te la passi… no, non dirmelo! Mi piace pensarti implicato in tormentose vicende e lugubri passioni…

… a sigh is just a sigh…

– Un tempo, cara, un tempo. Ho fatto sognare milioni di donne, milioni di uomini hanno cercato di imitare il mio sguardo, il mio sorriso. Ora sono qui, in pensione, con un bicchiere di gin e un computer, in compagnia dei ricordi. E tua, naturalmente.
– E mia, naturalmente. Sei sempre lo stesso: stesso sorriso, stessi occhi, stessa struggente malinconia. Con qualche ruga in più, un bicchiere di gin e un computer. Ma cosa ci fai, con un computer?
– Sto lavorando a un mio progetto di conservazione delle pellicole d’epoca, travasandole in formato digitale, non senza aver implementato un rendering e filtrato tutte le scale del grigio, tenendo altresì conto delle varie solarizzazioni …
– Uff! quanto sei noioso … parliamo d’altro…

… the fundamental things of life…

– Hai ragione, sono diventato un vecchio noioso, ma questo è un progetto fondamentale per la sopravvivenza delle vecchie pellicole, le quali non sopravvivrebbero all’incuria dei produttori di oggi, squali buoni solo a fare sequel…
– Cambiamo argomento, Humphrey, dài! Ti piace il mio vestito, eh?
– … e a proposito di sequel, lo sai che la Warner Bros sta lavorando al sequel di Casablanca?
– Non me ne frega un bel niente! Ma che fine ha fatto il duro Humphrey, l’audace, Humphrey, il galante Humphrey? Ascolta, perché non saliamo da me, e…
– Non sono sicuro che tu abbia capito il dramma: vogliono fare il sequel di Casablanca! E non è tutto…
– Non sarà tutto ma è abbastanza, non mi sono mai sentita così umiliata! Che ti succede, bello, eh? Non hai mai rifiutato l’invito di una signora…

… as time goes by…

– Mi sono fatto promotore di una petizione, così gli squali la smetteranno di girarci intorno… A proposito, manca solo la tua firma…
– Io non firmo proprio nulla! Su, Humphrey, usciamo. Un po’ di aria fresca ti farà bene…
– So io cosa mi fa bene, pupa, e tu, Sam, suonala ancora.

Casablanca Bogey e IngridHumphrey (l’inimitabile) si alza, Ingrid (la fatale) lo guarda stupita: l’incedere dell’uomo è elegante, misurato, di colui che sa come andrà a finire. L’ha visto tante volte a cinema.

Ecco, sono vicini, si toccano. Lui le cinge la vita con il braccio e l’avvicina a sé, serio. Lei gli arruffa i capelli fin troppo composti, e sorride. Fa caldo, molto caldo. Si baciano.

Lui dice: “Guarda che devi proprio firmarla, questa petizione!”

Fine della Storia: Humphrey è sempre inimitabile, Ingrid è sempre fatale, Sam suona sempre la stessa canzone.

… and when two lovers woo…
… they still say “I love you”…
… on that you can rely…
… no matter what the future brings…
… as time goes by…

Una caramella d’orzo

Una caramella d’orzo. Una caramella d’orzo tagliata, di quelle che piacciono ai vecchi, come dice la signora del negozio. Non mi sono mai piaciute, ma le ho comprate perché mi ricordano mio padre. Perché mi ricordano i nostri ultimi giorni. Due settimane a misurare la saturazione e la temperatura tra una medicina e l’altra. Due settimane di parole a casa seguite da due settimane di silenzi in ospedale. Ma, poi, mio padre è morto.

Sono qui, davanti a un foglio che non so riempire. È domenica, quando alle cinque della sera lo aiutavo a fare il bagno. Quando gli davo una mano per entrare nella vasca e gli lavavo la schiena. Poi le gambe e i piedi. Infine, lo aiutavo ad alzarsi e ad asciugarsi. Lo tamponavo di talco come un bambino e in qualche modo lo abbracciavo, in quella maniera un po’ rude che usa spesso tra padri e figli maschi. Dopo il bagno andavamo in cucina a chiacchierare un po’ prima che cominciasse il rosario, il suo appuntamento quotidiano di preghiera, tutto dedicato a mia madre morta da pochi mesi. Dopo ogni bagno e ogni chiacchierata tornavo a casa, affranto nel constatare la sua fatica di vivere ma felice per averne condiviso una porzione.

Oggi niente bagno, niente chiacchierata, niente. Papà è morto di covid il 24 marzo, un mese dopo aver contratto il virus. E anche negli ultimi giorni è riuscito a preoccuparsi degli altri: della guerra, che lo riportava ai tempi dei bombardamenti del ’43, delle persone senza lavoro, dei bambini. Mio padre ha sempre voluto, e saputo, caricarsi addosso il peso della sua e delle vite di chi gli era accanto. Lo ha fatto con spontaneità; lo ha fatto con semplicità; lo ha fatto con eleganza, l’eleganza di un uomo di altri tempi, come mi ha ricordato un medico che gli ha voluto bene. Lo ha fatto scegliendo una compagna che ha saputo – anche lei – caricarsi addosso il peso di un pezzo di mondo che la ricorda ancora con affetto e gratitudine.

Nostro padre e nostra madre – passo al noi perché ho due magnifiche sorelle – avevano la stessa idea di famiglia, pur provenendo da ambienti diversi. Insieme hanno costruito una famiglia e insieme hanno vissuto e cresciuto quella famiglia. Quando mamma è stata rapita dall’Alzheimer, papà ha chiuso fuori il mondo e l’ha seguita, l’ha curata, le ha dedicato ogni momento e ogni respiro. Non posso dire di essere sempre stato d’accordo con lui e non so quante volte gli avrò detto di uscire, ritrovare gli amici e continuare a curare il suo principale interesse: la dignità e la salute della gente di mare. Ma lui non ha mai voluto lasciarla sola un attimo. Mai. Era la sua idea di famiglia, la stessa di nostra madre. E se mamma ci ha lasciato in ricordo il suo esempio, il suo essere sempre davanti a noi per guidarci e spronarci, papà ce lo ha pure scritto. Voglio trascriverle, queste poche parole, e vorrei che in qualche modo ispirassero i nostri figli, i nostri nipoti, e che ci accompagnassero ogni giorno, nascoste in qualche piega del cuore, per poi spuntare come un faro quando fuori la nebbia del dolore ci dice di scappare. Sono parole tratte da L’ancora privata del navigante, uno dei tanti racconti di mare che papà ci ha lasciato.

“… ogni nave ha in dotazione tre ancore, tutte e tre situate sulla prua estrema dello scafo. Due sono posizionate su ciascun lato dello scafo, chiamate ancore di posta, sempre pronte per essere utilizzate quando necessario. La terza, quella di riserva, chiamata ancora di rispetto, sistemata dietro il salpa ancore, anch’essa sempre pronta per ogni evenienza… Questo per quanto riguarda la nave.
Anche tutto l’equipaggio, scapoli e sposati, ha un’ancora di salvataggio, virtuale, personale; senza dubbio la più importante di tutte: la famiglia. Quest’ancora ha virtù taumaturgiche: consola, lenisce, scarica i disagi delle giornate “NO”, della stanchezza e della tristezza. Non c’è momento della giornata che il marittimo non pensi alla casa lontana. Tutte le cabine sono costellate di foto della fidanzata, della moglie e dei figli. Se cacciatore, anche del cane. Anch’io, come tutti gli altri, dedicavo molto tempo ai miei familiari. All’inizio dell’imbarco erano pensieri fugaci, pensieri flash, nei quali cercavo di ricordare i momenti migliori vissuti assieme a tutti loro. Al contrario, quando si avvicinava la data del mio sbarco, entravo in fibrillazione. Il tempo non passava mai.
Quando sbarcavo dopo un lungo imbarco, già qualche giorno prima di scendere dallo scalandrone, sentivo il forte abbraccio di mia moglie, il profumo delle braccia dei miei figli intorno al collo. La gioia di trovarmi tra le mura domestiche era indescrivibile, era la sensazione più completa che potessi provare”.

Questa era la famiglia per nostro padre. Lo abbiamo sempre saputo, lo abbiamo sempre vissuto, ma lui ha voluto anche darci, da uomo del Novecento, una specie di istruzioni per l’uso:

“Restate sempre uniti, non fatevi dividere dagli eventi. Se resterete uniti sarete forti… Aiutatevi l’un l’altro. Ricordatevi che ho dedicato, senza rammarico, tutto me stesso alla famiglia; prima a quella d’origine, poi a quella che ho formato. Vi dico solamente che i miei figli sono stati le mie pietre miliari. Tenetelo da conto.
A mia moglie Anna lascio una sola parola: Grazie. Sai bene che parlare troppo per me è stata sempre una fatica. Vi abbraccio tutti”.

Sono parole del 1993, le sue ultime volontà scritte dopo la morte di un amico, ma le ha pensate e vissute per tutta la vita. E ritorna il ricordo di quando morì nonna e abbracciai mio padre in lacrime, il mio primo abbraccio da adulto, gli ultimi pochi giorni fa. Mentre piangeva, mio padre mormorò qualcosa sull’essere diventato il più vecchio della famiglia.
Ora, davanti a una caramella d’orzo tagliata, di quelle che piacciono ai vecchi, penso che stavolta il vecchio sono io. E per me è la caramella più buona del mondo.

Chi scopa il primo dell’anno scopa tutto l’anno?

Brindisi in bicchieri di plasticaIo lo so. Io vi vedo. Voi, maschi boomers al brindisi dell’ultimo dell’anno, in ufficio, con un prosecco da due euro e i bicchieri di plastica. E pure voi millennials, maschi nativi digitali che traete intime soddisfazioni su YouPorn invece che al cinema Splendor. Vi vedo tutti. A ridacchiare, a darvi di gomito e augurare: chi scopa il primo dell’anno, scopa tutto l’anno! Youpi! E giù risatine.
Lasciatevelo dire, non è bello. Non è elegante, innanzitutto, pensate a come vi guardano le signore che stanno brindando con voi, a come quella frase vi abbia chiuso tutte le saracinesche per l’eternità.
Poi, non è bello in sé. Voi vi pensate che sì, che è una sfaccimmata, ma io vi dico: meglio la castità. Io lo so. Io l’ho vissuto sulla mia pelle.
Tutto cominciò la sera del 31, dopo l’ennesimo brindisi con lo spumantiello di zio Bacco, quello con le bollicine più dense dell’Anitra WC, che quando scendono tirano giù pure le tonsille di cui ti liberi solo dopo una settimana assieme alle lenticchie e al cotechino. Ma non divaghiamo.
Tutto cominciò la sera del 31, dopo l’ennesimo palo. Avevo provato a ubriacare, nell’ordine: la collega superfiga; la collega figa così così; la collega menchefiga. Niente. Neppure la signora delle pulizie apprezzò l’offerta. Anzi, mi tirò appresso tutti i bicchieri di plastica assieme al tubo contenitore. Assai rigido, in verità.
Insomma, la stessa scena di ogni fine d’anno, un loop temporale che Christopher Nolan ha poi brevettato e riprodotto tale e quale in Tenet, facendo un sacco di soldi (e collezionando una spropositata serie di fighe, ça va sans dire).
Il giorno successivo, esattamente un anno fa, mi alzai con un mal di testa con i fiocchi e una vaga sensazione di tonsille nello stomaco, il solito. Scesi a fare colazione al bar all’angolo, e tutto cominciò. Ero al bancone, sguardo sul cellulare a spulciare cazzate, quando la barista sussurrò: «Caffè, tè, mè?»
Alzai lo sguardo pensando di trovare una cinquantenne cinefila e amante di Una donna in carriera, filmone dell’88 con Melanie Griffith. Invece no. Era una trentenne dell’88, cinofila e amante di Un vecchio in corriera, filmaccio di Melampo Griffi, autore misconosciuto ai più e apprezzato dai meno.
Ci intendemmo subito.
Io sollevai l’indice per indicare: un caffè.
Lei piegò le dita della mano destra e cominciò a stantuffare con il braccio per dire: te lo faccio forte.
Io annuii col capo per dire: mi sta bene.
Lei alzò pollice, indice e medio della mano sinistra per intendere: ti faccio un caffè con le 3 C: Comme Cazze Coce.
Io le feci l’occhiolino, ma solo per colpa di un moscerino di passaggio.
Il dopo, fu un attimo. Ovviamente non avevo capito nulla, e mi ritrovai trascinato da ella nel retrobottega, dove consumai un amplesso da 3 C: Comme Coce, Cazze! Ma a correre non fui io, né ella che mi strinse con vigore inusitato. A correre fu il suo golden retriever che prese possesso del mio virginale corpo ignudo. Fu il mio primo ménage à trois. Ne uscii confuso, incapace di valutare appieno tutte le sensazioni e aspettative, ma in testa avevo un solo pensiero: l’ho fatto il primo dell’anno, ora non mi ferma nessuno! E nessuno mi fermò.
Andai a letto con la qualunque. All’inizio fu fantastico, non posso negarlo: la signora matura del piano di sopra, la giovane bigliettaia del treno, la vigilessa dal frustino facile. Nessuno poteva fermarmi, ne collezionavo una al giorno. In verità, a essere proprio sinceri, erano loro a collezionare me. Voglio dire, non ero io a conquistarle ma loro a prendere me. E da qualunque parte la vogliate vedere, non è la stessa cosa. Ma non mi lamentavo, tenevo duro e compivo il mio dovere. Covavo un sentimento quasi mistico, avevo una missione da compiere.
Il problema nacque però col garagista. Avevo già notato che gli uomini avevano cominciato a fissarmi con una certa cupidigia. Niente di male, figuratevi, ho tanti amici gay e possono fare quello che vogliono. La cosa mi metteva un pelino d’ansia, a dirla tutta, ma riuscivo a gestirla. Scappavo a gambe levate, praticamente. Ma il garagista aveva un vantaggio, aveva in ostaggio la mia auto. Io non potevo fare a meno di usarla per andare nel laboratorio dove lavoravo, e ogni giorno entravo nel garage come un topo si infila in una trappola. Cominciai allora a usare tutte le tattiche descritte ne L’arte della guerriglia di Tzo Zzò, signore di tutte le fughe e padre di tutte le ritirate. Ma il garagista aveva letto L’arte della pazienza di Tza Zzà – autrice prematuramente scomparsa alla quale il marito dedicò la commovente canzone Addò sta Tza Zzà – e riusciva a prevedere ogni mia mossa. Viravo a destra, e lui zac! Mi infilavo a sinistra, e lui zac! Mi camuffavo con barba e baffi finti, e lui zac! È inutile scendere nei dettagli di ogni zac! Sappiate, però, che cominciai ad apprezzare le sue attenzioni, anche se continuavo a scappare, un po’ per celia e un po’ per non morir.
Insomma, non voglio tirarla per le lunghe, ma come da auspicio di inizio d’anno ho scopato ogni giorno. Ce l’ho fatta, ho realizzato il mio sogno. E allora, perché non sono felice? Che vi devo dire, in un anno sono dimagrito di una ventina di chili e ho le guance più scavate di Eduardo in Natale in casa Cupiello. Vedo avvicinarsi donne e uomini e animali e fiori (sì, godo di una tracimante pansessualità) con un certo ribrezzo sul volto eppure irresistibilmente attratti da me. O, per meglio dire, calamitati da una irresistibile voglia di accoppiamento come ricci a primavera.
Insomma, non è bello. Non è così bello. E quindi ho deciso. Mi pentirò, pagherò, espierò. Mi sono chiuso nel laboratorio, ho liberato tutte le cavie (non per improvviso spirito animalistico, ma per evitare ripetitivi amplessi di gruppo) e ho chiuso la porta a doppia mandata. Perché non scopando questo primo dell’anno non dovrei scopare per tutto l’anno, no? E finalmente tornerò a brindare con lo spumantiello di zio Bacco nei bicchieri di plastica, e tutto tornerà come prima. Torneremo a tirarci di gomito brindando alle ragazze che mai avemmo, e i loro sorrisi saranno così belli da ubriacarci di vita ed ebbri vagheremo per il mondo  cercando la Titina.
Ok, tra un po’ sarà mezzanotte, e se i miei calcoli sono giusti potrò uscire senza tema di scopata. Nel frattempo, che dire. Buon anno a tutti. Ai maschi boomers, ai millennials e alla Generazione Z, che il diavolo mi porti se so cos’è. E a voi ragazze di ogni tempo e generazione, auguro di essere libere. Dai pregiudizi, dalle consuetudini peste, dalle pressioni. Che siate libere da noi.  Dalle nostre risatine, dai nostri bicchieri di plastica e, soprattutto, dallo spumantiello di zio Bacco.

Metti guanti, togli i guanti

Occhei, niente panico. Chiama la badante, il figlio è positivo. ‘Na mazzata ‘n fronte (soprattutto per loro, ovviamente), ma tranquilla, va’ a casa che ai nonni penso io. Certo, come no. Infilo le scarpe, la mascherina ffp2, mi armo di anima e coraggio e vado. Scendo, salgo, entro, saluto mio padre, mi lavo le mani, apro tutte le finestre, prendo i guanti, disinfetto le mani, infilo i guanti, sistemo la spesa, butto le buste, prendo dei panni di carta, spruzzo di disinfettante le maniglie delle porte, il tavolo, il telecomando, il telefono, il forno, la penna. Tolgo i guanti, prendo le medicine, una a mia madre e una a mio padre, c’è acqua a terra, prendi il secchio, metti i guanti, prendi la mazza, lava, strizza e asciuga, lava, strizza e asciuga, lava, strizza e asciuga, un triduo da giocare al lotto, vai in bagno, strizza il panno, butta l’acqua, togli i guanti, torna in cucina. Mi accorgo di non aver disinfettato tutto, metti i guanti, prendi lo spruzzino, e vai sul carrello porta spesa, i pomelli dei cassetti, il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie e le maniglie delle finestre, e infine, perché no, una spruzzata nell’aere in ogni stanza, un’oscena, puzzolente e salvifica danza. Sono in affanno, non sono abituato alla ffp2, metto i guanti, tolgo i guanti, mi siedo sul divano, torno in cucina per prendere il cellulare e allora, solo allora, stupidamente allora, mi accorgo di aver disinfettato con Rio Vetri e cristalli. Voglio morire. Ma metto i guanti e tolgo i guanti. E niente panico.

Alta teatralità

Alta velocità, un caravanserraglio in un proiettile. C’è l’agente di commercio che parla da ore prima con un suo protetto e poi con un suo mentore, da Napoli a Roma ho imparato tutti i trucchi del mestiere e il valore della glicemia della cugina. C’è la coppia indiana in posti separati ma ora felicemente fianco a fianco con la bambina che dorme ammontonata. C’è la ragazza che ragiona sugli amici e su Milano, su dove e come dovrà sistemarsi, ma in tutt’ ‘o blocco invidia l’amico ventenne che già lavora e invece lei ancora l’ università e col suo stipendio almeno dieci viaggi all’anno, dice. C’è un gruppo di orientali che va avanti e indietro, uno dopo l’altro, come ingranaggi di un orologio svizzero, al bagno, alla macchinetta per il caffè, nell’altro vagone, che un signore per infilarsi nel meccanismo ha colto l’attimo fuggente ma se l’è lasciato scappare. C’è la ciaciona con il poggiatesta, l’uomo pelato con le scarpe alla moda e la voglia di zittire l’agente, la signora che guarda un film col tablet, gli auricolari e gli occhi chiusi. Infine la signora, stretta nel corridoio tra il bagno e la macchinetta per il caffè che mi chiede se posso cambiarle cinquanta euro, cinquanta euro per una macchinetta che va solo a monete, mi deve aver preso per Paperon de Paperoni, e io sorrido che no, le ho lasciate nel deposito sulla collina e le offro l’euro e venti, ma lei sorride imbarazzata e nicchia, che faccio, accetto?, chissà se posso fidarmi di questo bellimbusto, che poi perché chiamarlo bellimbusto se è rimasto solo un busto, anche piuttosto stagionato in verità, allora sfodero l’arma segreta, mi apro in un sorriso rassicurante e dico che devo prendere il caffè per mia moglie, la signora finalmente si rilassa e accetta, prende l’euro e venti e computa un caffè ristretto, uh sta uscendo lungo però è buono, conosco questa macchinetta, e quasi pare carezzarla con lo sguardo, mi aspetto che la chiami per nome ma non lo fa, prende il caffè e va via ringraziando. Nel frattempo l’agente è andato in bagno col telefonino, l’uomo pelato è finalmente felice per non essere costretto ad ammazzarlo, gli orientali continuano imperterriti il viavai, il signore in agguato piange a dirotto con le gambe strette, la ragazza tutt’ ‘o blocco dorme sognando viaggi e tende da campeggio.
Io torno al mio posto e penso che le donne non devono fidarsi dei bellimbusti che millantano moglie al seguito, moglie che con lo sguardo mi chiede che cazzo ho fatto tutto questo tempo alla macchinetta senza aver preso niente.

Avvia spesso conversazioni

Non so se l’avete notato, ma da qualche tempo Facebook ha cominciato ad attribuire alle persone alcune caratteristiche. Nei gruppi di fotografia, per esempio, di qualcuno che pubblica spesso foto Facebook dice che Crea spesso contenuti visivi interessanti. È una specie di etichetta, un modo di dare valore alle persone.
Però c’è un attributo, un’etichetta che mi toglie il sonno: Avvia spesso conversazioni. Che mi vuoi dire, Facebook, che quel tipo è un polemico, un pesantone, una capera, uno che attacca bottone e non si stacca più?
Un tempo si era più gentili. Nel mio palazzo, per esempio, quando ero ragazzo c’era una signorina che chiamavano Omnibus perché faceva tutte le fermate, attaccando bottone con ogni passante.
Facebook, invece, è impietoso. Avvia spesso conversazioni. Che uno legge e si nasconde, mette il risponditore automatico su Messenger, evita di mettere mi piace a qualunque post per 12 ore, anche a quello della soubrettina piacente, insomma fa come quando si incrocia un leone nella savana: si resta immobili. Ma, si sa, non serve a niente. Colui che avvia spesso conversazioni sente l’odore della paura, ti snida e ti annienta con le sue noiosissime confidenze, anche su quello che non volevi sentire, e cioè che lui, almeno, con la soubrettina c’è uscito davvero a prendere un caffè e chissà cos’altro. Verosimilmente niente, ma abbastanza per far venire la gastrite a te e non a loro che il caffè l’hanno sorbito e gustato.

Quattro passi

Quattro passi per smaltire la pennica dopo pranzo, quel po’ di vita sovrappeso, le scorie della routine. Quattro passi per accorgerti che le nuvole sono andate via, ramazzate da un venticello fresco che ci vuole una giacca a indossarlo con decoro e per bene. Quattro passi per la via, tra le luci delle vetrine, i fari delle automobili, le trombette stridenti dei bambini. Quattro passi per nuotare contro la corrente dei ragazzi e delle ragazze vestiti per un appuntamento, il primo bacio o l’ennesima birretta con gli amici, figlie e figli, nipoti, sorelle e fratelli minori degli anni miei che mi ostino a portare appresso con incosciente leggerezza. Quattro passi tra i fuochi d’artificio, due ragazzini che filmano col cellulare, un cane che guaisce di paura e tre donne ad abbracciarlo, a dirgli che ha ragione, che non c’è bisogno di sparare in aria la felicità. Che bastano quattro passi ad annusare vestiti nuovi e capelli lisciati, camicie stirate e gonne leggere, ormoni e pizze al forno, sfogliatelle e profumi da adulti, ricorrenze, sorpresa, eccitazione. Quattro passi a guardare la vita e prenderla in prestito, impastarla, lavorarla con le mani, sporcarsi di farina, lievitarla piano e farne pensiero, palpiti nuovi, extrasistole e scarti improvvisi.
Quattro passi, la vita è lì.
Quattro passi, la vita è tutta qui.