Gli struffoli con i tuoi, la pastiera con chi vuoi

Soffiato di pastiera (buono!)

Non è più come una volta, quando la pastiera era sacra. Quando la faida pasquale tra parenti e vicini partiva al grido di: La pastiera si fa senza la crema! I canditi non ci vanno! Il grano va intero! No, il grano va passato! Ma quando mai, il grano si passa solo metà! eccetera eccetera.

Oggi non usa più, è storia antica. Oggi, a Napoli, non si sente più nessuno dire: Chesta nun è pastiera, chesta è ‘na torta c’ ‘a ricotta! I tempi sono cambiati, oggi le nostre donne sono superiori, non si abbassano a menar vanto di arti culinarie, no, si affidano ai migliori pasticcieri, quelli che vengono meglio su Tik Tok.

Ma a me non mi convincono. Per me, a meglia pastiera è quella di casa. Non necessariamente di casa mia. Cioè, quella di casa mia è oggettivamente più buona, ma non ne faccio una bandiera. Voglio dire, se qualcuno fa una pastiera migliore non scateno mica una guerra. Ma quella di casa mia è più buona, va bene, non ho problemi ad ammetterlo.

Ora vuoi liberarmi, cara? Prima ho detto che la pastiera di Virginia era buona, non che fosse migliore della tua!

(Nella foto, il soffiato di pastiera di mia moglie, mai mangiato nulla di più buono. A parte la pastiera classica. La sua, naturalmente).

Un basso al sole

Certe mattine, quando sui basoli volo a evitare le buche più dure, sul marciapiede alla mia sinistra vedo due ragazze in maglietta, gonna e asciugamani in testa come turbante.

Certe mattine, ogni quattro/cinque giorni suppergiù, Pia Francesca e Francesca Pia sono in piedi ad asciugare i capelli al sole. E chiacchierano e ridono, non badano a me che invento nomi e storie.

Certe mattine fortunate tiro dritto fino a sera, pieno della vita in fasce che rubo all’angolo di un basso al sole.

‘O mostro

Questa affissione mi ha divertito molto. Non conosco la scuola di lingue straniere di Pollenza Trocchia, non so se son bravi a insegnarlo, l’inglese, ma di certo sono stati bravi ad attirare l’attenzione.
'O mostro
Oltre il divertimento, però, c’è una domanda che mi pongo da tempo e riguarda un mutamento del Napoletano: quand’è successo che siamo diventati così assoluti, così perentori? Nel manifesto, per fare un complimento, scrivono Si’ ‘o mostro. Io avrei detto: Si’ nu mostro. Voi come lo dite?
Forse è un problema generazionale. La lingua muta con il tempo ed evolve; si allarga, si stringe, si adatta, abbraccia nuove parole e muta quelle esistenti.
Oggi, per esempio, si usa molto pariare, un verbo utilizzato per dire cose spesso simili ma anche diverse, e io non capisco la metà di quello che dicono.
Oppure, tornando al tema iniziale, di una persona brutta sento dire che è ‘o cesso.
Non lo dicono i miei coetanei, almeno credo, ma dai quarantacinque in giù viene usato spesso. Ma perché dite — le donne in maggioranza, mi pare — che un uomo è ‘o cesso? Li avete passati tutti in rassegna? Essere nu cesso semplice non bastava? C’è una graduatoria e lui, proprio lui, è arrivato al traguardo sbaragliando la concorrenza? È il padre di tutti i cessi, sta di casa nell’Iperuranio?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.

È stato ‘o zio!

Caffè CiorfitoPizzeria napoletana, due turiste gustano, gradiscono e salutano.
Vi consiglio il caffè del bar all’angolo – dico, sorpreso di me stesso – è davvero speciale.
Le turiste sorridono, ringraziano e ri-salutano sorprese.
Cinque minuti dopo mi alzo, pago e vado al bar.
È stato il signore! – mi additano le due mentre sorbiscono il caffè.
Ah, è stato ‘o zio! – commenta quello sfacciato del cassiere.
Ebbene sì, mi addosso la colpa del consiglio e mi gusto il caffè nella tazza decorata blu, mentre le turiste ringraziano felici, ri-ri-salutano e si portano appresso un po’ di Napoli e il suo teatro quotidiano.

Voccastorta

Voccastorta

Che fai quando chiude la lavanderia sotto casa? Oltre a sacramentare in molteplici lingue e dialetti, intendo.
Dopo una miriade di congetture ho verificato che le alternative possibili si riducono sostanzialmente a 3:

  1. metti un annuncio su Bric-à-Brac
  2. accendi un cero al Santo Sapone di Marsiglia
  3. chiami l’amica geniale, quella che risolve tutti i problemi anche in quei giorni, che arriva presto, finisce presto e di solito pulisce pure il water

Io ho scelto la terza, anche perché fondamentalmente agnostico e il glorioso giornale di annunci gratuiti Bric-à-Brac riposa da tempo nel cimitero delle testate.

Chiamo quindi l’amica, che mi consiglia la sua lavanderia. Una raccomandazione, però: fai attenzione che sono precisi. Vabbè, che sarà mai, mi dico.
In ogni caso, prima di recarmi spazzolo per bene l’impermeabile e lo piego seguendo le istruzioni di un video giapponese su Instagram. Arrivo quindi alla lavanderia, e subito ne ho un’ottima impressione: profuma di pulito e non vedo il classico montone di panni alto più o meno come il K2.
Il signore dietro il bancone ha un’aria professionale e mi chiede 12 euro, non prima di avermi comunicato che l’impermeabile sarebbe stato pronto il sabato successivo. Infine, stampa una ricevuta con il mio cognome e si segna il mio numero di cellulare caso mai fosse pronto prima.

Ovviamente non è stato pronto prima, e comincio a sospettare la classica operazione di marketing, ma veniamo al sabato dell’ingaggio. Entro, e davanti a me c’è una coppia di ragazzi gentili. Gentilissimi. Fin troppo gentili. Annuiscono in continuazione.

I capi saranno pronti mercoledì
Oui…
Ma non questo mercoledì, il prossimo mercoledì…
Oui, oui…
Cioè non il prossimo. L’altro…
Oui, oui, oui…
Anzi, sapete che vi dico? Questa giacchetta mi piace e me la tengo…
Oui, oui, oui, oui…

Non proprio così, ma ci siamo capiti. Attendo che escano annuendo in retromarcia e mostro la ricevuta. Il tizio la guarda, legge il numero, controlla se ho pagato – sì, ho pagato in anticipo –, si dirige verso un serpentone mobile tipo seggiovia a cui è appeso un numero imprecisato di capi approssimabile a un milione, capo più, capo meno.
Si avvicina, legge il numero del primo capo, aziona una leva e il serpentone si muove. Zzzzzzzz…
I capi, prima assolutamente inerti, si ringalluzziscono e si dirigono lesti verso il tizio che guarda e guarda e legge e scruta. Il mio numero non c’è. Comincia a sudare. Zzzzzzzz…
Aziona la leva verso sinistra. Altri capi arrivano, altro giro altra giostra. L’impermeabile non c’è. Il sudore aumenta, le lenti si appannano. Zzzzzzzz… Leva a destra. Zzzzzzzz… Poi a sinistra.
Zzzzzzzz…Zzzzzzzz…Zzzzzzzz… Destra, sinistra, destra. Niente da fare, l’impermeabile non c’è.
Il tizio mi guarda con un’espressione del tipo Sicuro che ha portato un impermeabile proprio qui da noi?, invece mi chiede il colore.
Blu, rispondo, ma posso tornare più tardi…

Ora, se c’è una cosa che manda in tilt un precisino è un errore. Non un errore qualsiasi, ma il suo errore. La ricevuta è sua, il numero di cellulare sul retro l’ha scritto di suo pugno, l’impermeabile l’ha perso lui. Ma c’è un’ultima speranza: Mammaaa
Dietro una tenda c’è la madre che stira e propone diverse soluzioni al problema l’hanno rimandato al lavaggio (l’hanno rimandato chi?), hai visto sull’altro stendino, dietro la porta, sopra la panca, poi gioca il jolly: di che colore è?
Sempre blu, rispondo ineffabile, cercando di descriverlo alla bell’e meglio: ha un cappuccio, due tasche (…), altezza al ginocchio…
Ah, ma è un giaccone! chiosa la mamma, mentre il tizio cerca di incenerirla all’istante per poi differenziarla nell’umido. Poi continua a cercare, osservare ricevute, numeri, biglietti, fino a trovare un giaccone impermeabile blu con capuccio e due tasche molto simile al mio.
È lui, è il mio impermeabile! grido quasi per la gioia del ritrovamento, ma soprattutto sollevato per il tizio in piena crisi di nervi per aver azzeccato un biglietto su un capo sbagliato. O viveversa, non ho mica capito.

Comunque, ieri non letto di matricidi in città e mi sento sollevato. E un po’ dispiaciuto, il panico del signore mi ha divertito un po’ troppo. Ma non sono sadico, né mi divertono le disgrazie altrui. Sono un osservatore, mi piace guardare le persone, il modo in cui intrecciano le loro vite con la mia. Registro tutto e a volte, come ora, cerco di restituire a parole il divertimento mio. Che spero un giorno diventi vostro, un modo per sorridere di noi stessi, un tentativo di sopravvivere restando umani. E se non siete d’accordo, se non vi piace, non c’è problema, amici come prima. Basta che me lo diciate in faccia.
Basta che non aspettiate la mia dipartita per poi dirmelo con un manifesto, com’è capitato al povero Voccastorta nella foto in alto.
No, questo non ve lo perdonerei mai. E verrei a tirarvi i piedi nel sonno, come si confà a un beneducato fantasma napoletano.

Circumvesuviana, interno giorno

Circumvesuviana, interno giorno. Treno fermo a Ercolano al terzo binario, in attesa che il Campania Express per i turisti arrivi, sbarchi e ci sopravanzi. Fa caldo, nel treno fermo. Quando corre, il vento agita le molecole di sudore e le fa fesse, ma quand’è fermo è l’anticamera dell’inferno. Mi guardo intorno e vedo fantasmi sudati che ghignano infelici; tra un ghigno e un ululare di catene mi immagino nel vagone piombato di Cassandra Crossing, quindi mi alzo risoluto ed esco a prendere aria. Non l’avessi mai fatto: l’aria che ristagna più in alto del metro e settanta ha uno scarto termico di almeno tre gradi e fuori c’è Bafometto che vende ghiaccioli al Trinidad Moruga Scorpion, il peperoncino più piccante al mondo. Rientro sconfortato, mentre il Campania Express arriva e fa i suoi comodi. Decido di non sedermi sui sedili grigliati e resto in piedi, mentre una signora mi guarda. Sarà stato il caldo oppure il calo glicemico, ma non riesco a descrivervi lo sguardo. La mia coetanea mi guarda fisso per un tempo indefinito, non saprei se per la mia bellezza o per un collasso incipiente, anche se una paresi facciale mi pare l’ipotesi più probabile. Io resto fermo di sguincio, come se il fatto non sia il mio, attento a non incrociare quello sguardo di fuoco (fa troppo caldo, capisci a me).
La signora parla con un compagno di sedile e commenta, senza staccarmi gli occhi di dosso: “Io non capisco perché voi uomini dovete soffrire. Guarda a chillo co ‘e llente (che sarei io), ma nun se more ‘e cavero? Cu chella giacca, po’… ca sicondo me è pure pesante…“.
Ecco, mi mancava solo il pubblico ludibrio per finire in gloria la giornata. Me ne torno a casa con la coda tra le gambe (il che aumenta in maniera proporzionale la temperatura corporea nelle parti basse) e penso con nostalgia ai tempi in cui tutti gli uomini indossavano la giacca e tutte le donne li perculavano sottovoce, con quel rispetto di facciata che era solo – finalmente l’abbiamo capito – attenzione a che non ci facessimo troppo male.

Qui è il comandate Esposito che vi parla

Qui è il comandate Esposito che vi parla. Siamo partiti in orario da Poggiomarino, abbiamo eluso i controlli per cui il treno risulta soppresso, stiamo sorvolando Barra e arriveremo a Napoli Porta Nolana in tempo per il ritardo previsto. La musica che vi sta schiattando le recchie è gentilmente offerta dal mio cellulare e dal microfono distrattamente lasciato aperto.
Enjoy your trip, travel Circumvesuviana!

La calla

CallaDi prima mattina.

Medioanziano Avventore: Bella questa pianta, come si chiama?
Anziana Fioraia: Chesta? È ‘a calla!
MA: La prendo.
AF: M’arraccumanno, nun l’annaffiate ogne juorno!
MA: Ogni due giorni, allora?
AF: No.
MA: Una volta alla settimana?
AF: No – stringe il pugno -, t’ ‘o chier’essa… (*)

MA sta ancora cercando di capire come glielo chiederà, ma è la festa della mamma, va bene così.

(*) te lo chiede lei (torrese)