Essere una ezimega

È da un po’ che i valori del colesterolo non sono più quelli di una volta: il colesterolo “cattivo” LDL è un po’ alto, mentre quello “buono” HDL un po’ basso. Mai una gioia, insomma.
Dicono che per alzare quello buono bisogna fare sport, quindi cammino cammino cammino, soprattutto la domenica mattina, quando procedo trafelato e assorto verso mete ignote ai confini della realtà. E, poi, prendo un integratore. Ma non è che sia cambiato molto. Bisognerebbe, forse, correre invece che camminare, e magari cambiare stile di vita. Oppure cambiare i parametri degli esami del sangue, hai visto mai.
Come che sia, mentre trascrivo al medico di famiglia i risultati degli esami prescritti, il programma di scrittura corregge “Ezimega” in “mezzasega”. E mentre sorrido per non piangere, non so se denunciare il correttore per diffamazione o per violazione della privacy.

Gli struffoli con i tuoi, la pastiera con chi vuoi

Soffiato di pastiera (buono!)

Non è più come una volta, quando la pastiera era sacra. Quando la faida pasquale tra parenti e vicini partiva al grido di: La pastiera si fa senza la crema! I canditi non ci vanno! Il grano va intero! No, il grano va passato! Ma quando mai, il grano si passa solo metà! eccetera eccetera.

Oggi non usa più, è storia antica. Oggi, a Napoli, non si sente più nessuno dire: Chesta nun è pastiera, chesta è ‘na torta c’ ‘a ricotta! I tempi sono cambiati, oggi le nostre donne sono superiori, non si abbassano a menar vanto di arti culinarie, no, si affidano ai migliori pasticcieri, quelli che vengono meglio su Tik Tok.

Ma a me non mi convincono. Per me, a meglia pastiera è quella di casa. Non necessariamente di casa mia. Cioè, quella di casa mia è oggettivamente più buona, ma non ne faccio una bandiera. Voglio dire, se qualcuno fa una pastiera migliore non scateno mica una guerra. Ma quella di casa mia è più buona, va bene, non ho problemi ad ammetterlo.

Ora vuoi liberarmi, cara? Prima ho detto che la pastiera di Virginia era buona, non che fosse migliore della tua!

(Nella foto, il soffiato di pastiera di mia moglie, mai mangiato nulla di più buono. A parte la pastiera classica. La sua, naturalmente).

Un basso al sole

Certe mattine, quando sui basoli volo a evitare le buche più dure, sul marciapiede alla mia sinistra vedo due ragazze in maglietta, gonna e asciugamani in testa come turbante.

Certe mattine, ogni quattro/cinque giorni suppergiù, Pia Francesca e Francesca Pia sono in piedi ad asciugare i capelli al sole. E chiacchierano e ridono, non badano a me che invento nomi e storie.

Certe mattine fortunate tiro dritto fino a sera, pieno della vita in fasce che rubo all’angolo di un basso al sole.

Una caramella d’orzo

Una caramella d’orzo. Una caramella d’orzo tagliata, di quelle che piacciono ai vecchi, come dice la signora del negozio. Non mi sono mai piaciute, ma le ho comprate perché mi ricordano mio padre. Perché mi ricordano i nostri ultimi giorni. Due settimane a misurare la saturazione e la temperatura tra una medicina e l’altra. Due settimane di parole a casa seguite da due settimane di silenzi in ospedale. Ma, poi, mio padre è morto.

Sono qui, davanti a un foglio che non so riempire. È domenica, quando alle cinque della sera lo aiutavo a fare il bagno. Quando gli davo una mano per entrare nella vasca e gli lavavo la schiena. Poi le gambe e i piedi. Infine, lo aiutavo ad alzarsi e ad asciugarsi. Lo tamponavo di talco come un bambino e in qualche modo lo abbracciavo, in quella maniera un po’ rude che usa spesso tra padri e figli maschi. Dopo il bagno andavamo in cucina a chiacchierare un po’ prima che cominciasse il rosario, il suo appuntamento quotidiano di preghiera, tutto dedicato a mia madre morta da pochi mesi. Dopo ogni bagno e ogni chiacchierata tornavo a casa, affranto nel constatare la sua fatica di vivere ma felice per averne condiviso una porzione.

Oggi niente bagno, niente chiacchierata, niente. Papà è morto di covid il 24 marzo, un mese dopo aver contratto il virus. E anche negli ultimi giorni è riuscito a preoccuparsi degli altri: della guerra, che lo riportava ai tempi dei bombardamenti del ’43, delle persone senza lavoro, dei bambini. Mio padre ha sempre voluto, e saputo, caricarsi addosso il peso della sua e delle vite di chi gli era accanto. Lo ha fatto con spontaneità; lo ha fatto con semplicità; lo ha fatto con eleganza, l’eleganza di un uomo di altri tempi, come mi ha ricordato un medico che gli ha voluto bene. Lo ha fatto scegliendo una compagna che ha saputo – anche lei – caricarsi addosso il peso di un pezzo di mondo che la ricorda ancora con affetto e gratitudine.

Nostro padre e nostra madre – passo al noi perché ho due magnifiche sorelle – avevano la stessa idea di famiglia, pur provenendo da ambienti diversi. Insieme hanno costruito una famiglia e insieme hanno vissuto e cresciuto quella famiglia. Quando mamma è stata rapita dall’Alzheimer, papà ha chiuso fuori il mondo e l’ha seguita, l’ha curata, le ha dedicato ogni momento e ogni respiro. Non posso dire di essere sempre stato d’accordo con lui e non so quante volte gli avrò detto di uscire, ritrovare gli amici e continuare a curare il suo principale interesse: la dignità e la salute della gente di mare. Ma lui non ha mai voluto lasciarla sola un attimo. Mai. Era la sua idea di famiglia, la stessa di nostra madre. E se mamma ci ha lasciato in ricordo il suo esempio, il suo essere sempre davanti a noi per guidarci e spronarci, papà ce lo ha pure scritto. Voglio trascriverle, queste poche parole, e vorrei che in qualche modo ispirassero i nostri figli, i nostri nipoti, e che ci accompagnassero ogni giorno, nascoste in qualche piega del cuore, per poi spuntare come un faro quando fuori la nebbia del dolore ci dice di scappare. Sono parole tratte da L’ancora privata del navigante, uno dei tanti racconti di mare che papà ci ha lasciato.

“… ogni nave ha in dotazione tre ancore, tutte e tre situate sulla prua estrema dello scafo. Due sono posizionate su ciascun lato dello scafo, chiamate ancore di posta, sempre pronte per essere utilizzate quando necessario. La terza, quella di riserva, chiamata ancora di rispetto, sistemata dietro il salpa ancore, anch’essa sempre pronta per ogni evenienza… Questo per quanto riguarda la nave.
Anche tutto l’equipaggio, scapoli e sposati, ha un’ancora di salvataggio, virtuale, personale; senza dubbio la più importante di tutte: la famiglia. Quest’ancora ha virtù taumaturgiche: consola, lenisce, scarica i disagi delle giornate “NO”, della stanchezza e della tristezza. Non c’è momento della giornata che il marittimo non pensi alla casa lontana. Tutte le cabine sono costellate di foto della fidanzata, della moglie e dei figli. Se cacciatore, anche del cane. Anch’io, come tutti gli altri, dedicavo molto tempo ai miei familiari. All’inizio dell’imbarco erano pensieri fugaci, pensieri flash, nei quali cercavo di ricordare i momenti migliori vissuti assieme a tutti loro. Al contrario, quando si avvicinava la data del mio sbarco, entravo in fibrillazione. Il tempo non passava mai.
Quando sbarcavo dopo un lungo imbarco, già qualche giorno prima di scendere dallo scalandrone, sentivo il forte abbraccio di mia moglie, il profumo delle braccia dei miei figli intorno al collo. La gioia di trovarmi tra le mura domestiche era indescrivibile, era la sensazione più completa che potessi provare”.

Questa era la famiglia per nostro padre. Lo abbiamo sempre saputo, lo abbiamo sempre vissuto, ma lui ha voluto anche darci, da uomo del Novecento, una specie di istruzioni per l’uso:

“Restate sempre uniti, non fatevi dividere dagli eventi. Se resterete uniti sarete forti… Aiutatevi l’un l’altro. Ricordatevi che ho dedicato, senza rammarico, tutto me stesso alla famiglia; prima a quella d’origine, poi a quella che ho formato. Vi dico solamente che i miei figli sono stati le mie pietre miliari. Tenetelo da conto.
A mia moglie Anna lascio una sola parola: Grazie. Sai bene che parlare troppo per me è stata sempre una fatica. Vi abbraccio tutti”.

Sono parole del 1993, le sue ultime volontà scritte dopo la morte di un amico, ma le ha pensate e vissute per tutta la vita. E ritorna il ricordo di quando morì nonna e abbracciai mio padre in lacrime, il mio primo abbraccio da adulto, gli ultimi pochi giorni fa. Mentre piangeva, mio padre mormorò qualcosa sull’essere diventato il più vecchio della famiglia.
Ora, davanti a una caramella d’orzo tagliata, di quelle che piacciono ai vecchi, penso che stavolta il vecchio sono io. E per me è la caramella più buona del mondo.

È quasi mezzanotte e sono in cerca di una farmacia notturna

È quasi mezzanotte e sono in cerca di una farmacia notturna. Sembra facile, nei paesi, trovare una farmacia aperta di notte. Ma Torre non è un paese piccolo, anche se si atteggia a tale. Sul sito del Comune è indicata una farmacia, mentre sulle bacheche delle farmacie ne è indicata un’altra. Non solo, ma la farmacia è indicata con un cognome, che però risponde a una memoria antica che non trova più riscontro nel presente. Insomma, giro da venti minuti nella città vuota, è quasi mezzanotte e la farmacia non si trova. Cadrei nello sconforto se servisse a qualcosa, ma serve che torni con un farmaco e non c’è tempo per le distrazioni di un sommesso viaggiatore. Ma svoltando a sinistra, verso sud, c’è una luna enorme e bianca che indica una strada. Non è una stella cometa, no. Piuttosto un pallone sgonfio e stanco sulle cime dei pini laggiù. Lo seguo per tutto lo stradone, rapito, poi mi sveglio e torno a cercare. Trovo la farmacia, il farmaco, i soldi contati e vado via, con la luna sgonfia che riempie il cielo e lo specchietto retrovisore, bellissima e perturbante.
Mamma bella
Nella foto c’è mia madre. Ancora bella, ancora in sé. Guarda con orgoglio il marito che presenta un libro di racconti, ma è un’altra storia. Questa volta la protagonista è lei. Non sa che da lì a poco l’Alzheimer l’avrebbe portata via un pezzo alla volta.
Oppure lo sa, lo sente, si vede ogni giorno più lontana; sente che si frantuma, si sfarina, intuisce che si scioglie piano per poi tornare indietro. Un osceno viavai quotidiano, un movimento lento che la porta altrove, che la sfasa e rifasa come una mamma di Schrödinger che nello stesso momento c’è e non c’è. Ma questa volta chi osserva è lei. E non è possibile immaginare il dolore che deve aver provato quando c’era sapendo che non c’era.
Mia madre è morta stamattina. Oppure una mattina di tanto tempo fa, non me lo ricordo più. Si è sgonfiata piano come un pallone, come una luna enorme e bianca che indica una strada, un sentiero in cui non saremo mai da soli. Perché le mamme fanno così, ti tengono per mano fin quando non impari ad andare da solo. Ma ad andare da soli non si impara mai, questo le mamme lo sanno bene. E si inventano luna per guidarti ancora.

Leggero e un po’ svampito (per tacer del palo)

Leggero e un po’ svampito, sulle ali di una giornata buona vo tornando alla magione. Zaino in spalla, busta nella mano sinistra, nella destra il telefonino a consultare il meno e il più. Ma c’è un venticello freddo, o così è se pare ai miei quattro peli quattro, e con la mano destra cerco in tasca il cappellino salvavita che non trovo, ohibò, e dove l’avrò infilato, dove l’avrò abbandonato, dove cazzo (e diciamolo!) l’avrò lasciato.
Meno male che non fa così freddo, anzi, fa pure un po’ caldino, forse forse si suda quasi, no no si suda proprio, magari mi levo ‘sto cappello che non è proprio il caso. E meno male che lassù qualcuno ci ama, a noi insallanuti, altrimenti che fine faremmo.
E il palo ? Quello l’ho solo sfiorato, per fortuna. Ma il cartello apposto, quello di sbieco, quello appuntito e insolitamente basso, quello l’ho proprio provato a tranciare di netto con il folto sopracciglio destro.
Ma meno male che qualcuno lassù etc.

200 lire

Dieci anni, cresciuto a Tiramolla, nonna Abelarda, Geppo e, poi, Topolino, siedo sulla sabbia nera a leggere Thor e i Vendicatori, un “giornaletto” prestato da chissà chi. Siedo rapito dai tratti e dai colori, ma soprattutto dalla storia, un vecchio dottore storpio sulla Terra che diventa il dio del tuono su Asgard. Fierezza, nobiltà, sacrificio, in una parola: l’avventura. E ora, come faccio senza?
Corre in soccorso mia nonna Anna e nel pomeriggio, le 200 lire in tasca, vado da Gerardo ‘o giurnalaio (mitico anche lui, forse anche più di Thor, un essere mezzo uomo e mezza edicola, ma è un’altra storia) e lo trovo, il giornaletto di Thor e i Vendicatori. Ma sono un ragazzino educato, esito, aspetto che mi si rivolga la parola, e un ragazzo più grande arriva, prende il fumetto, dà le 200 lire a Gerardo e via. Resto a bocca asciutta, ma un bravo edicolante sa cosa fare: Gerardo si gira di lato, scruta, sceglie e mi mette sotto al naso il numero 7 di Capitan America. Capitan America n.7Un eroe vero, un uomo e non un dio, senza (quasi) superpoteri e con una dirittura morale che lèvati. Torno a casa e nasce una passione, un appuntamento ogni quindici giorni con l’avventura della Casa delle idee (sì, gli americani se la tirano sempre un po’). Un appuntamento durato 110 numeri, compresi i primi 6 sempre acquistati con i soldi di nonna Anna.
Ho sempre letto molto, libri e fumetti. Comprati, a sbafo, in prestito, di stramacchio. Tex, Zagor e Mister No da Carmine ed Enrico, Diabolik e Jolanda da zio Pasquale, Monello e Intrepido non ricordo da chi. E poi tanta altra roba, Eureka, Linus, Alan Ford. l’amore per le bande dessinée francesi. E poi la satira, Cane Caldo, I quaderni del Sale, il Male, Tango, Cuore.
Quanta giovinezza, quanta cultura è passata da quei tratti e da quelle battute.
Ora di fumetti non ne leggo più, e non so perché. Ma è stato bello ricordarli, grazie Marco.

Metti guanti, togli i guanti

Occhei, niente panico. Chiama la badante, il figlio è positivo. ‘Na mazzata ‘n fronte (soprattutto per loro, ovviamente), ma tranquilla, va’ a casa che ai nonni penso io. Certo, come no. Infilo le scarpe, la mascherina ffp2, mi armo di anima e coraggio e vado. Scendo, salgo, entro, saluto mio padre, mi lavo le mani, apro tutte le finestre, prendo i guanti, disinfetto le mani, infilo i guanti, sistemo la spesa, butto le buste, prendo dei panni di carta, spruzzo di disinfettante le maniglie delle porte, il tavolo, il telecomando, il telefono, il forno, la penna. Tolgo i guanti, prendo le medicine, una a mia madre e una a mio padre, c’è acqua a terra, prendi il secchio, metti i guanti, prendi la mazza, lava, strizza e asciuga, lava, strizza e asciuga, lava, strizza e asciuga, un triduo da giocare al lotto, vai in bagno, strizza il panno, butta l’acqua, togli i guanti, torna in cucina. Mi accorgo di non aver disinfettato tutto, metti i guanti, prendi lo spruzzino, e vai sul carrello porta spesa, i pomelli dei cassetti, il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie e le maniglie delle finestre, e infine, perché no, una spruzzata nell’aere in ogni stanza, un’oscena, puzzolente e salvifica danza. Sono in affanno, non sono abituato alla ffp2, metto i guanti, tolgo i guanti, mi siedo sul divano, torno in cucina per prendere il cellulare e allora, solo allora, stupidamente allora, mi accorgo di aver disinfettato con Rio Vetri e cristalli. Voglio morire. Ma metto i guanti e tolgo i guanti. E niente panico.

‘O mostro

Questa affissione mi ha divertito molto. Non conosco la scuola di lingue straniere di Pollenza Trocchia, non so se son bravi a insegnarlo, l’inglese, ma di certo sono stati bravi ad attirare l’attenzione.
'O mostro
Oltre il divertimento, però, c’è una domanda che mi pongo da tempo e riguarda un mutamento del Napoletano: quand’è successo che siamo diventati così assoluti, così perentori? Nel manifesto, per fare un complimento, scrivono Si’ ‘o mostro. Io avrei detto: Si’ nu mostro. Voi come lo dite?
Forse è un problema generazionale. La lingua muta con il tempo ed evolve; si allarga, si stringe, si adatta, abbraccia nuove parole e muta quelle esistenti.
Oggi, per esempio, si usa molto pariare, un verbo utilizzato per dire cose spesso simili ma anche diverse, e io non capisco la metà di quello che dicono.
Oppure, tornando al tema iniziale, di una persona brutta sento dire che è ‘o cesso.
Non lo dicono i miei coetanei, almeno credo, ma dai quarantacinque in giù viene usato spesso. Ma perché dite — le donne in maggioranza, mi pare — che un uomo è ‘o cesso? Li avete passati tutti in rassegna? Essere nu cesso semplice non bastava? C’è una graduatoria e lui, proprio lui, è arrivato al traguardo sbaragliando la concorrenza? È il padre di tutti i cessi, sta di casa nell’Iperuranio?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.