Indizi di vecchiezza andante (o dell’arzillezza che non ti aspetti)

Totò e Peppino da Starbucks

Uno degli effetti del coronavirus, forse uno dei più perversi, è l’idea che gli over 60 siano da proteggere. Soprattutto da se stessi.

I ragazzi, in treno, ti fanno posto. È vero, lo fanno già da tempo, ma prima ti chiamavano: ’o zi’. Mentre oggi sei diventato: ’o no’!

Le ragazze per strada, ti guardano ancora. Per aiutarti ad attraversare.

Superi la lunghissima fila di persone che attendono di entrare in una pizzeria famosa, nessuno osa fermarti, nemmeno la cameriera-cerbero all’ingresso; il tuo volto parla da solo ed esprime fierezza, determinazione, volontà. Soprattutto stupore, quando ti accorgi di aver sbagliato pizzeria e i tuoi amici ti aspettano nella pizzeria dall’altra parte della strada. Naturalmente, torni indietro fendendo la folla con la faccia dell’uomo che non deve chiedere mai. Nemmeno le indicazioni, e imboccando la piazza contromano ci metti un’ora e mezza per raggiungerli invece dei tre minuti d’ordinanza.

È la pausa caffè ed esci con un collega giovane. Giovane, poi, avrà sì e no vent’anni di meno, che sarà mai. È una bella giornata, quale migliore occasione per andare a vedere questo Starbucks che ha aperto da un solo giorno. Arriviamo in galleria, fuori c’è una specie di percorso per entrare, di quelli per tenere compatte le file di persone, ma ci siamo solo noi. Fuori, perché sono tutti dentro, una fiumana di ragazzi da una parte del bancone e un’altra fiumana di ragazzi dall’altra parte, direi un cinquanta e cinquanta. Dalla nostra parte i ragazzi guardano la vetrina, scelgono il dolcetto o lo scherzetto (un protomuffin da mezzo chilo o un bagel al salmone fujuto), mentre dalla parte opposta i ragazzi tirano leve, infilano roba in sacchetti, scrivono nomi su bicchieroni in plastica, insomma fanno tutto tranne il caffè. Arriva il nostro turno, e come Totò e Peppino approcciamo con un sempiterno Nojo vulevòns ordinar
La ragazza non si scompone, ha visto di peggio a vico Lungo Gelso e ci guarda con sguardo inquisitorio, le palpebre socchiuse per quell’ettogrammo scarso di eyeliner nero fondo di cozza. Ipnotizzati, e soprattutto ignoranti delle mode, nella casa del frappuccino ordiniamo la prima cosa che ci viene in mente, un caffè con panna e un caffè macchiato di caramello. La dolce donzella non riesce a trattenere uno sguardo schifato e chiede se il caffè lo vogliamo americano o cold brew, e al nostro sguardo stupito spiega che il secondo è più intenso. Ci guardiamo e ordiniamo il cold brew, tanto si sa che il caffè americano è acqua fresca. Paghiamo e avanziamo verso la fine del bancone, dove la ragazza addetta alle grida ci chiama consegnandoci i bicchieroni da dove non riusciamo a bere in quanto tappati ben bene, fino a quando una ragazzina, che potrebbe essere la figlia del collega che potrebbe essere mio figlio (mio dio!), ci spiega come bucare il tappo di plastica con la cannuccia di carta.
Insomma, alla fine vorrei dirvi che il cold brew al caramello è una ciofeca, so quanto vi piacerebbe, ma non dormo da due giorni e sono arrivato all’alba dei miei 61 anni più arzillo di un mandrillo addetto alla consegna del viagra in farmacia. Quindi niente, per divertirvi sui miei acciacchi dovrete aspettare i prossimi 62, o almeno che chiuda Starbucks e i suoi long acting caffè.

See you later alligator.

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